lunedì 10 giugno 2013

PSICANALIZZARE, EDUCARE, GOVERNARE: MESTIERI IMPOSSIBILI. Di Giancarlo Ricci


Una celebre frase di Sigmund Freud osserva che ”quello dello psicanalizzare sembra essere il terzo dei mestieri impossibili il cui esito insoddisfacente è evidente. Gli altri due, noti da tempo, sono quelli dell’educare e del governare”. Psicanalizzare, educare, governare sono dunque pratiche impossibili. Eppure mai come in questa stagione il tema dell’ingovernabilità balza costantemente agli onori della cronaca: nella politica così come nel pensiero progettuale, nell’informazione così come nelle idee relative a un presunta  realtà. Qualcosa immancabilmente sfugge, si frammenta, si sottrae alla pensabilità. Non siamo più padroni in casa nostra.
La psicanalisi insegna che l’esperienza della impotenza comporta una preziosa fecondità, l’occasione per  interrogarsi intorno allo statuto dell’umano, abitarlo fino in fondo senza protesi, orpelli, mascherature, tutori, alibi, astuzie della ragione. Il nodo rimane quello della libertà. Sembra paradossale ma è proprio l’esperienza dell’impotenza e del limite a costituire la condizione della libertà.

L’esperienza del limite esige l’istanza della responsabilità. Era Freud a ricordare più volte che la vera potenza è quella del ritorno del rimosso. E che qualcosa che viene espunto dal simbolico (dalla parola) ritorna dal reale e ci travolge inesorabilmente. Oggi non c’è solo il trionfante fantasma dell’onnipotenza tecnologica a esibirsi, ma diverse e variegate forme di onnipotenza: quella della certezza morale, quella narcisistica, quella ideologica, quella dei saperi ben disciplinati, quella delle certezze impeccabili esibite in alta uniforme e tante altre. È così difficile capire che la certezza nutrita di onnipotenza è una figura del punto cieco, dello scotoma, della bulimica negazione della differenza?
I gadget della tecnologia, ben confezionati e divertenti, ci hanno ormai invaso e stordito. Ci troviamo sommersi di oggetti. Ci balocchiamo e ne vogliamo ancora. Il godimento sarebbe assicurato, assegnato a ciascuno come un obbligo, come una libertà necessariamente da consumare ovvero come una libertà coatta. Ossimoro, quest’ultimo, che pulsa nella paradossale divisione del gaudente uomo post industriale. Forse più che di divisione si tratta di frammentazione: la libertà immaginata come onnipotenza incontra ben presto la caducità delle scelte, l’effimero gioco in cui il relativismo ripropone e ripete, in tutte le sue varianti, l’impossibilità di mantenere una fermezza etica. “L’oggetto fallisce”, diceva Jacques Lacan. L’oggetto infatti non satura mai il desiderio, ma anzi restituisce al soggetto una mancanza incolmabile. E allora occorre subito passare a un altro oggetto.
In una dimensione sociale dominata dal neoliberismo, in cui tutti pretendono di essere liberi, di trovarsi in una libertà assoluta, l’individuo ritiene di poter fare quello che vuole e quindi nessuno può vietare alcunchè. Tutto è possibile. Se qualcuno pone un divieto è illiberale o moralista perché pone un limite alla volontà. Tale “libertà immaginaria”, come la chiama il sociologo Mauro Magatti, porta direttamente a una particolare forma di nichilismo: la libertà, da sola, ossia come puro esercizio di infinite scelte, risulta una forma di distruzione. La “libertà tutta” è il deserto. 
Il trionfo della scienza, della tecnologia, dello scientismo eretto a visione del mondo mostra nel suo specchio deformante qualcosa che molti fanno finta di non vedere: la vanità della potenza, il trionfo dell’individuo, l’illusione dell’Io di poter governare il reale, piegarlo ai desideri, renderlo funzionale. La supponenza dell’Io, notava Freud, è simile a quella del clown Augusto: «L’Io sostiene la parte ridicola del clown Augusto che vuole convincere con i suoi gesti gli spettatori che tutti i cambiamenti avvengono nel circo grazie ai suoi comandi». Giungiamo al colmo dell’impostura: fare in modo che l’ingovernabilità confermi la necessità della padronanza e soprattutto di un legittimo titolare.
L’ingovernabilità, così come si presenta nel nostro tempo, va considerata come uno scacco che ha una portata ben più ampia di quanto si creda. Non è propriamente legata alla contingenza ma rivela una dimensione strutturale. È come un cortocircuito in cui, in un certo senso, la superstizione, che doveva assicurare ai suoi praticanti di poter rimanere superstiti (come affermava Cicerone), non funziona più, non garantisce più salvezza dal male o dal disastro. Non ci saranno superstiti, non ci saranno testimoni. Forse il capitalismo si chiama “avanzato” proprio perché è in grado di far sparire i propri scarti, i propri superstiti, i propri testimoni. Come se fosse un ciclo produttivo autocannibalico.

Nessun commento:

Posta un commento