martedì 12 marzo 2013

CHE MADRI AVETE AVUTO di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo un brano del libro IL PADRE DOV'ERA (Sugarco 2013) di G. Ricci relativo alla questione della madre. L'esergo è una poesia di P. P. Pasolini 
"Che madri avete avuto": 

Madri mediocri, che non hanno avuto 
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto 
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Non c’è domanda più radicale, e al tempo stesso più intima, che interroga così insistentemente come questa Ballata delle madri scritta da Pasolini: “Mi domando che madri avete avuto”. Ossia: che sguardo hanno avuto per i loro figli, che cosa hanno inteso di loro, come lo hanno amato, come si è coniugato il loro desiderio verso il figlio. La lirica di Pasolini gronda di amore e di rabbia, esprime il “dolore di essere uomini” e indica una sorta di desolante maledizione. 



  Non si tratta, come spesso evoca una certa retorica buonista, del tenero amore del figlio verso la madre. Piuttosto è il contrario: è l’amore “sordidamente muto” della madre a risultare tragico, “mostruoso”. Pasolini in un’intervista ammette di aver pensato per molto tempo a qualcosa di inquietante:  “L’insieme della mia vita eroica ed emotiva (credevo che) fosse il risultato del mio amore eccessivo, quasi mostruoso verso mia madre”. Questa mostruosità in effetti è sempre sul punto di ribaltarsi fino a coincidere con la lucida consapevolezza di essere oggetto d’amore esclusivo e privilegiato da parte della madre. 
     In un’altra poesia dal titolo Supplica a mia madre, il poeta scrive parole incandescenti: “Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:/è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia./ Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai dato./ E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza anima (...)"
    Che madri avete avuto. Questione che è il fulcro della soggettività umana. L’esito riguarda la sessualità del figlio, la sua possibilità di amare una donna che non sia la propria madre. Riguarda la possibilità di impostare con una donna un progetto di vita nel nome di una relazione d’amore. Riguarda anche la natura del legame con gli altri e con l’altro sesso, l’affettività, la propria identità maschile e altro. Molta letteratura psicanalitica ha posto l’accento sulla madre divorante, castratrice. Tuttavia c’è madre e madre. 


           La nostra attenzione si sofferma su quella madre che rispetto al figlio si trova a mettere in atto una fantasmatica in cui il desiderio è esclusivo, divorante. Così come può essere estrema la fantasmatica materna che si attenga al principio: “come ti ho messo al mondo, così posso distruggerti”. Questione di vita o di morte. Fantasia estrema ma ricorrente di onnipotenza materna. I cui effetti sui figli non mancano. 

Alcune testimonianze di pazienti maschi raccontano che da quando erano bambini fino all’adolescenza inoltrata, la madre diceva che il figlio era  sempre malaticcio, cagionevole, che non cresceva. Come se il corpo del figlio fosse stato da sempre carente, in definitiva inadeguato a incarnare l’oggetto mancante del desiderio materno. Quando il figlio deve rappresentare, fino all’incarnazione, il desiderio della madre, incomincia la patologia. 

Molta psicanalisi ha giustamente insistito sulla rappresentazione fallica del figlio che alcune madri esigono. Si tratta della dialettica tra l’avere e l’essere il fallo che rinvia, su un versante immaginario, al tema paralizzante di una fantasia incestuosa. Lungo questa via per un figlio può affacciarsi un interrogativo radicale: se il mio corpo non è stato in grado di essere soddisfacente per mia madre, come potrà esserlo per un’altra donna? E ogni altra donna non può che evocare la madre. In questo giro che si chiude su se stesso cresce quella che possiamo definire la soluzione omosessuale. 

Il figlio o la figlia possono rispondere in vari modi sintomatici  all’onnipotenza materna: il figlio, per esempio, scivolando verso una posizione omosessuale che risulterebbe una sorta di difesa, di sviamento, di presa di distanza dalle “fauci materne”. Oppure la figlia, per esempio, con il sintomo dell’anoressia o della bulimia. Le coniugazioni sono infinite. Ed è evidente che per il maschio e per la femmina tali coniugazioni assumono pieghe differenti.    
Dinanzi a una madre che per semplificare chiamiamo “divorante”, la questione rimane quella relativa a come, da quelle fauci, ne esca il figlio. L’interrogativo è essenziale: come potrebbe svolgersi per il figlio, a partire dai primi mesi di vita, quel processo che attraversando diverse fasi di identificazione possa finalmente approdare a un sano statuto sessuale? 

“Mia madre - racconta un paziente - vuole sempre averla vinta, mi asfissia, vuole avere sempre ragione. Vuole avere l’ultima parola. Ha sempre ragione lei. In pratica vuole rimanere onnipotente, forse per poter tenermi legata a lei”. Parole che testimoniano come l’insofferenza e l’odio diventino una forma di legame, il più indissolubile. Aggiunge: “Ero il preferito di mia madre, dicono le mie due sorelle”. E conclude: “Il taglio ombelicale l’ho dovuto fare io, perché lei non l’avrebbe fatto. Il cordone ombelicale mi stringeva il collo”.

L’identità sessuale viene raggiunta da un uomo innanzi tutto se egli è riuscito compiutamente a confrontarsi con la questione materna. Dobbiamo essere più precisi: se dalla madre gli è stata data la possibilità di confrontarsi.  “Il desiderio inconscio che anima la sessualità maschile è profondamente determinato dal suo rapporto con il materno”, osserva lo psicanalista Didier Dumas. E precisa: “Per l’uomo, la donna è sia madre sia oggetto di godimento, ma raramente in modo simultaneo. Nei fantasmi sessuali la madre e la donna non sono mai sovrapponibili. Le immagini della femminilità acuiscono i suoi desideri sessuali. Invece quelle riferibili al materno hanno tendenza a inibirli”. Molti sintomi relativi all’impotenza maschile ruotano intorno a queste due variabili. 
Spesso l’impotenza maschile del figlio corrisponde, quasi come in un gioco di specchi, alla sconfessione materna della morte, di quella “morte” implicita nella crescita psicosessuale del figlio. La madre  preferisce tenere il bambino stretto a sé, sconfessando che il figlio è tale solo in quanto destinato a un distacco. La madre non consente che il bambino “muoia” per lasciar “nascere” il figlio che ancora deve crescere. 
C’è un legame arcaico con la madre che passa attraverso il corpo, ma in modo dissimmetrico: in alcuni fantasmi materni il figlio è vissuto come se fosse una protesi corporea della madre, mentre per il figlio il legame assume altri connotati, contrassegnati spesso da un’istintività primaria, fusionale, magmatica.
Come potrebbe articolarsi per il figlio un proprio desiderio, quel desiderio che lo porterebbe a rivolgere lo sguardo verso altre donne, se il desiderio, ricorda Lacan, è in prima istanza desiderio di desiderio? Rispetto alla relazione madre-figlio ciò significa che la madre desidera essere desiderata dal figlio. E viceversa. Ecco emergere il tema della simbiosi in cui la reciprocità speculare ingigantisce il narcisismo di entrambi e potenzia la dipendenza. 
Tutto ciò si svolge, per il maschietto, nel primo tempo dell’edipo. Il secondo tempo interviene quando la presenza simbolica del padre si pone come elemento terzo, rompendo la reciprocità di questo duopolio simbiotico del desiderio e instaurando una legge paterna che giunga a normare il desiderio. Il terzo tempo riguarda le implicazioni di questa legge che, se da una parte impone un limite al godimento del bambino, dall’altra gli indica la via per poter accedere anche lui all’oggetto d’amore: diventare, come il padre, un maschietto che potrà a tempo debito amare anche lui una donna, un’altra donna rispetto alla propria madre. 
In questo schema semplificato della logica edipica, il primo passo (necessario ma non sufficiente) con cui il soggetto maschile entra in una posizione omosessuale riguarda il non poter rinunciare all’originario oggetto d’amore. Il padre diventa un rivale, con tutte le modulazioni che vanno dal disprezzo all’indifferenza. Atteggiamenti, questi, che nei racconti dei pazienti sono evocati in tutta la loro portata talvolta plateale anche per dimostrare agli occhi della madre una fedeltà irrinunciabile. 
Ma è proprio questo fantasma di fedeltà, soprattutto quando è reciproco, a diventare il terreno fertile in cui la fantasia sessuale del ragazzo trova spazio per coltivare la propria perversione. Quest’ultima procede dall’interrogativo intorno al godimento dall’altro.    

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