mercoledì 26 febbraio 2020

IL PADRE IN OZU

Segnaliamo l'uscita del libro di DAVIDE BERSAN
Figure del padre in Ozu
(Polimnia Digital Editions, 2020)

La filmografia completa del celebre regista giapponese viene esplorata dagli esordi a partire dalla posizione poliedrica che il padre assume in ciascun film. Il libro costituisce anche un attraversamento delle tematiche tipiche
di questo grande regista.

"È all’interno di tale universo artistico - scrive Bersan nell'Introduzione - che ho potuto man mano ritrovare e ripercorrere una sorta di “alfabeto dell’umano” le cui prime 
lettere sono “padre” e “figlio” ma anche “figlia”, “madre”, “fratelli”, “sorelle” e così via". In tal senso questa carrellata di figure, di statuti e di interiorità pare raccontino, partendo da un altrove, l'attualità dei nostri tempi.

Il libro è disponibile presso Amazon o altri stores
in vari formati digitali.



Davide Bersan è nato a Verona e oggi lavora a Milano. Laureato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, da tempo lavora nel campo delle cure psichiatriche. Ha seguito una formazione di counseling (sistemico e psicodinamico). Negli ultimi anni i suoi interessi si sono rivolti anche all’approfondimento di argomenti di psicanalisi e di cinema.
      Gestisce un blog: 
https://blog.libero.it/wp/cinemadiozu/


Dall'Introduzione

L’idea di scrivere questo libro mi è venuta dopo aver scoperto quasi per caso il cinema di Yasujiro Ozu. Pur amando il cinema sin dall’infanzia, le mie conoscenze della settima arte lambivano occasionalmente la cinematografia orientale. La mia frequentazione delle sale ha sempre alternato periodi di assiduità e di latitanza, tuttavia mi concedevo di tanto in tanto la visione di qualche film d’autore che cercavo con cura selettiva in base agli interessi del momento. Circa sei anni fa mi sono imbattuto, lungo le mie consuete ricerche tra gli scaffali pieni di dvd della biblioteca del mio quartiere, prima nella sezione di cinema dell’Estremo Oriente e poi nel film di Ozu “C’era un padre” (Chiki Ariki). Cercavo in realtà qualcosa che trattasse della relazione padre-figlio. In quel momento stavo leggendo diversi libri su questa tematica e desideravo affrontarla da più prospettive, anche quella riguardante il discorso cinematografico. 
L’impressione che ho provato dopo la visione di quel film di
Ozu del 1942 è stata forte e profonda, ho sentito molta commozione come se quella storia non narrasse solo di un padre e un figlio di un paese asiatico lontanissimo dall’Italia e di molti anni fa, ma come se riguardasse in fin dei conti anche me, così come ogni figlio e ogni padre in tutto il mondo. Erano effettivamente, come poi in seguito ho scoperto, impressioni simili a quelle che anche altri avevano avuto a contatto con le opere di Ozu, come ad esempio Wim Wenders che nel suo lungometraggio “Yokyo-ga” (1983) ne offre un’esplicita testimonianza.
In esso Wenders ripercorre a vent’anni dalla scomparsa del regista giapponese, i luoghi rappresentati nei suoi film per cercarvi, forse invano, ciò che vi rimane di Ozu e del suo mondo poetico: «Per quanto siano tipicamente giapponesi questi film sono allo stesso tempo universali. Vi ho riconosciuto tutte le famiglie del mondo intero, anche i miei genitori, mio fratello e me stesso. Secondo me mai prima di allora e neanche dopo il cinema è stato così vicino alla sua essenza e alla sua funzione: offrire un’immagine dell’uomo nel nostro secolo, un’immagine utile, vera e valida in cui ci si può riconoscere e soprattutto da cui si può apprendere qualcosa di sé» (dalla voce narrante di Wenders all’inizio del film). In base a questa testimonianza era come accorgersi che la specificità della storia raccontata non ne minava il suo significato universale o forse proprio per la sua particolare collocazione storica faceva risuonare in un modo del tutto unico e direi anche più intenso, degli echi spesso sepolti nell’animo umano.

Sono passati però alcuni mesi prima che sentissi il
desiderio di rivedere Chiki Ariki e poi anche le altre opere di Ozu. La mia scoperta non si era infatti esaurita in quel film perché man mano che vedevo altre sue pellicole mi rendevo conto di quanto ognuna rappresentasse un singolo tassello di una costruzione più grande, del tutto coerente e coesa al suo interno. In essa i temi, le immagini, i valori, gli stili, le tecniche convergevano in un unico progetto artistico, in una stessa visione unitaria del mondo e dell’umano, in un peculiare universo contenutistico e stilistico che trovava una felice e alta espressione nell’arte del cinema. 
È all’interno di tale universo artistico che ho potuto man mano ritrova- re e ripercorrere una sorta di “alfabeto dell’umano” le cui prime lettere sono “padre” e “figlio” ma anche “figlia”, “madre”, “fratelli”, “sorelle” e così via. E le ritrovavo in tutta la loro freschezza sorgiva e nella loro densità semantica che solo il filtro di una cultura “altra”, lontana da quella occidentale anche se non aliena da contaminazioni, poteva restituircele da una tale prospettiva inedita e per questo così carica di preziose suggestioni. Era come riscoprire queste stesse parole, mediate da immagini dal potente impatto visivo e sentirle risuonare di echi antichi ma anche nuovi in un linguaggio che, se pur connotato culturalmente, sapeva farsi intendere da ognuno. 
“C’era un padre” è stata effettivamente la porta che mi ha permesso di accedere a quel mondo che era costituito essenzialmente dalla filmografia del regista. Il secondo passaggio è stato per me quello di approfondire la co- noscenza della cultura e della storia del Giappone per trovare la corretta contestualizzazione dell’opera di Ozu. 
Non è difficile notare che l’universo artistico di Ozu si focalizza sulla realtà familiare, seguita passo dopo passo, registrata, si potrebbe dire, nei suoi mutamenti sempre più profondi per più di tre decenni, ossia dalla fine degli anni venti ai primi anni sessanta, attraverso momenti salienti della storia del Paese del Sol Levante. 
      Nel 2015 ho iniziato a promuovere degli incontri impostati
come dei laboratori (o conferenze) sul cinema di Ozu. Non propriamente quindi un cineforum: i film, all’inizio, venivano introdotti da alcune note e alla fine commentati liberamente dal pubblico. Inoltre durante la visione venivano proposte alcune pause per introdurre chiavi di lettura e focalizzazioni su determinate particolarità stilistiche o altri tipi di rilievi. Tali momenti offrivano alle persone presenti lo spazio per eventuali osservazioni in itinere. Di tali notazioni, a vari livelli, a volte vi può essere eco nei capitoli, in particolare nel secondo e nel terzo. Da allora ho organizzato numerosi altri incontri in cui sono stati proiettati, sempre con le stesse modalità, almeno una decina di film del regista, oltre che di altri autori per lo più giapponesi. Incontri sempre abbastanza frequentati che si sono svolti in gran parte presso la biblioteca comunale del quartiere milanese di Crescenzago e alcune volte presso l’associazione culturale che fa capo alla Villa Pallavicini di Milano. 
Se la realtà familiare è il focus narrativo su cui il regista ha elaborato le sue numerose storie, non senza una propria evoluzione stilistica e contenutistica avvenuta nel corso degli anni, la figura del padre all’interno della famiglia è quanto mai centrale in quasi tutti i suoi film. Centrale anche quando, soprattutto nel dopoguerra, ne registra la crisi di ruolo, e lo sfaldamento degli equilibri sia generazionali che all’interno del nucleo familiare rispetto alle tradizioni consolidate. Con quest’opera ho cercato appunto di considerare con più attenzione il modo in cui è raffigurata l’immagine del padre nei film di Ozu. 
Pur non essendo un’opera sistematica, le riflessioni sono state ordinate partendo dai film più vecchi del regista, quelli del periodo del muto per intenderci, per poi attraversare i film del periodo bellico e proseguire con quelli usciti nei primi anni del dopo-guerra per approdare infine ai più recenti dopo la svolta del colore nel 1958 con “Fiori di equinozio”. Tutti i periodi della filmografia ozuiana sono stati presi in considerazione e direi la maggior parte dei suoi film, almeno di quelli reperibili. Se qualche film è stato trascurato, come ad esempio “La donna della retata” o “Una donna di Tokyo”, è per il semplice motivo che non vi ho trovato rimandi significativi alla figura del padre. Di altri come “Sorelle Munekata” o “Erbe fluttuanti” pur avendoli ben presenti non mi è stato possibile dedicarvi un paragrafo. Il tema o focus narrativo del libro è infatti il padre, la sua figura, la sua immagine, il suo porsi come altro polo di un figlio o di una figlia o di più figli, così come Ozu la raffigura e rappresenta, lasciando più spazio alle impressioni e alle risonanze interiori rispetto ad una vera e propria meta-riflessione. 

giovedì 4 luglio 2019

SULLA POST LIBERTA'. Intervento di RICCI

Presentiamo nel video un estratto dell'intervento di Giancarlo Ricci in occasione della presentazione del suo libro
"Il tempo della post liberta'. Destino e responsabilità in psicoanalisi". 
Milano, 29 maggio 2019.

Per altri video relativi all'intervento di Eugenia Scabini  vedi https://youtu.be/TlbrgfCINdo e sulla serata https://youtu.be/TahOrkB0_XU

VAI ALL'INTERVENTO DI RICCI




"La libertà di pensiero l'abbiamo conquistata, adesso ci manca il pensiero" - 
Karl Kraus

giovedì 13 giugno 2019

IL CINEMA DI BERGMAN


Sul capolavoro di Ingmar Bergman, IL SETTIMO SIGILLO (1956)  si svolgono 
due serate ideate e curate da Davide Bersan

Le date sono: mercoledì 19 e 26 giugno 2019 

alle h. 20.30 presso la Biblioteca di via Valvassori Peroni, 56 (MM Lambrate). 

La prima serata sarà di tipo introduttivo sulla biografia e sui grandi temi portati avanti dall'autore per passare poi al film la cui trama si svolge in un cupo Medio Evo, in una Svezia flagellata dalla peste in cui un cavaliere  tornato dalle crociate si gioca la vita che gli rimane in una misteriosa partita a scacchi con la morte... 

Nel secondo incontro sarà dato maggiore spazio agli interventi dei presenti e alla conversazione guidata. 
Questo appuntamento è anche un momento 
per condividere i numerosi stimoli culturale 
che le opere dei grandi autori 
sanno suggerirci. 



Alcune note di DAVIDE BERSAN

Un cavaliere crociato e il suo scudiero dormono sui sassi di una spiaggia deserta della Svezia. Al risveglio il cavaliere si mette a pregare, poi si accorge della presenza di un personaggio misterioso che rivela essere la Morte. Inizia con lui una partita a scacchi che deciderà della sorte del cavaliere: la morte o la vita.
La partita sarà il tema dominante del racconto ma sarà intervallata da numerosi episodi che contestualizzeranno e insieme forniranno elementi al cavaliere per indirizzare la sua ricerca interiore. 
La vicenda del cavaliere Antonius Block e del suo scudiero Jons si intrecceranno con quella del gruppo di attori girovaghi formato dal capocomitiva Skat e da Jof, la moglie Mia e il figlioletto Michael. In una Svezia martoriata dalla peste nera che incombe, si muovono figure come l’ex seminarista Raval, che ora ruba ai cadaveri, cortei di flagellanti guidati da monaci invasati, una ragazzina accusata di stregoneria e condannata al rogo, una giovane donna rimasta totalmente sola che decide di seguire lo scudiero Jons, la moglie di un fabbro che lo tradisce con l’attore Skat e poi alla fine ritorna col marito. 

Intanto la partita a scacchi continua e alla fine è la Morte che ha la meglio ma la sua vittoria non è su tutti i fronti: a causa di una lieve distrazione a cui il cavaliere non è estraneo, la famiglia di attori girovaghi le sfugge. L’incontro fatale con la Morte avviene per tutti gli altri al castello del cavaliere dove c’è ancora ad attenderlo la fedele moglie Karen.  
Jof il giocoliere che ha il dono di vedere l’invisibile, contemplerà poi nel lontano orizzonte la macabra danza della Morte con la falce in mano, che si trascina dietro le sue prede umane costrette a danzare con lei al suo passo, tenendosi per mano.

Il settimo sigillo é il film di Ingmar Bergman del 1956 che lo pone definitivamente ai vertici del cinema internazionale come autore di grande livello e straordinaria bravura. Il trentottenne Bergman riesce a trarre da un suo precedente testo teatrale un’opera che come poche altre riesce a mettere lo spettatore di fronte ai propri interrogativi più atavici e profondi. E lo fa utilizzando un repertorio di linguaggio ricco di simboli soprattutto biblici (lo stesso titolo è tratto dal libro dell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni) ma anche tratto da una religiosità e da una mitologia di tipo popolare e naturalistico. Il Medio Evo è il medium contestuale in cui egli colloca la vicenda narrata, ma trattasi di un Medio Evo ricostruito attraverso i suoi ricordi d’infanzia, quando seguiva il padre pastore luterano nelle sue visite alle antiche chiese del Nord della Svezia per officiarvi  il culto e il figlio si impressionava davanti ai misteriosi e antichi  affreschi. Di esso  richiama esclusivamente alcuni aspetti, quelli cioè a lui congeniali a collocarvi quel confronto serrato  tra la coscienza umana e la morte che peraltro impegna gli uomini di tutti i tempi.
Anche dei contemporanei di Bergman (siamo negli anni 50, in piena guerra fredda) che avvertivano incombere con angoscia il pericolo dell’ecatombe atomica. E’ un confronto sollecitato nel racconto filmico dal propagarsi minaccioso della peste, a cui si aggiungono  in un crescendo assillante le domande rivolte al Dio cristiano, al suo tacere di fronte al male del mondo e ai tormenti della coscienza che non trova risposte. Interrogativi sul significato dell’esistenza umana che verosimilmente agitano lo stesso Bergman che riversa in questo film come in tanti altri i temi di fondo del suo percorso biografico. E sotto questa luce si può ancora leggere  la sua critica pungente  rivolta alla chiesa come istituzione con la denuncia e messa a nudo dell’ipocrisia, della malafede e delle pratiche superstiziose, spesso sulle spalle della  gente del popolo che brancola nel buio. In tale contesto non mancano tuttavia quelli che esorcizzano la paura della peste dilettandosi con i piaceri terreni. E neppure gli umili e i puri di cuore come la famiglia di attori girovaghi, figure-chiave del racconto filmico.  Il cavaliere crociato mostrato nelle prime sequenze, dopo essere ritornato in patria al termine della sua impresa fallimentare, si appresta a sfidare la Morte stessa in una partita a scacchi come l’ha sentito raccontare nelle saghe popolari e  visto raffigurare nei dipinti. Gli servirà a salvare la pelle se vincerà. Ma se perderà, se la Morte gli darà scacco matto avrà comunque guadagnato del tempo. E questo tempo gli sarà utile per cercare di capire, per impegnarsi con grande apprensione (ormai non c’è molto tempo) a trovare il senso della sua vita, a dare un significato al tempo che gli rimane.  E’ senz’altro un Bergman che insieme agli interrogativi lascia ancora aperte delle porte al senso della trascendenza, che sembra non  escluderla come possibilità salvifica per l’uomo. Certo neppure si può dire che l’apertura del settimo e ultimo sigillo del rotolo che nel libro dell’Apocalisse (in greco rivelazione) è tenuto in mano dall’Agnello  segnato con le stigmate del sacrificio estremo, dischiuda alla fine del film una verità risolutiva. Rimane tuttavia il mistero, visto e raccontato da Jof, il saltimbanco che ha il dono delle visioni, di quella danza macabra (altro topos iconografico) di coloro che tenuti per mano senza alcuna distinzione di classe o rango sociale dalla figura nera  con il mantello, la falce e la clessidra, si allontanano nell’orizzonte verso un’alba che li rischiara mentre una debole pioggia  bagna la loro fronte  lavandola dal sudore e dalla polvere.   

mercoledì 22 maggio 2019

L'ASSOLUZIONE DI GIANCARLO RICCI

Pubblichiamo di seguito il COMUNICATO STAMPA
 redatto dal Collegio della Difesa 
(avv.ti Davide Fortunato e Valeria Gerla) 
in merito alla Delibera di archiviazione 
da parte dell'OPL del caso Ricci.


Il 17 gennaio 2019 si è riunita la Camera di Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia per pronunciarsi sul procedimento disciplinare nei confronti del dott. Giancarlo Ricci e relativo ad alcune affermazioni pronunciate nel corso di una trasmissione televisiva del 2016. Solo dopo oltre tre anni di udienze il Consiglio, in ragione di 7 Consiglieri favorevoli e 7 contrari, ha deciso per l’archiviazione del procedimento.
Un esito che è frutto anche dell’intenso lavoro del collegio difensivo e che, per amore di verità, merita alcune considerazioni. Per oltre tre anni, dinanzi alla comunità scientifica, ai colleghi, al mondo istituzionale, il dott. Ricci è stato considerato come l’”incolpato”, termine usato nella Delibera iniziale. Tale clima di intimidazione e di sospetto ha costretto il dott. Ricci a rimandare - e spesso annullare - varie attività pubbliche.
Riteniamo utile ripercorrere velocemente, qui di seguito, alcuni momenti significativi di questo lungo processo.
Oltre al contenuto delle dichiarazioni rese nell’ambito della trasmissione televisiva nel gennaio 2016, il Consiglio, in ragione delle difese svolte, ha potuto esaminare vari documenti, dépliant, scambi di mail, estratti di verbali di altri procedimenti, post di Facebook e altri estratti pubblicati in rete. Sono stati prodotti documenti che, a parere del Collegio difensivo, avrebbero dovuto condurre alla ricusazione di due Consiglieri. Per due volte, il Consiglio ha ritenuto che la documentata “profonda inimicizia” di due consiglieri nei confronti del dott. Ricci non giustificasse la richiesta di ricusazione. Le argomentazioni fornite in punto dal Consiglio appaiono deboli ed ellittiche di riferimenti alla ampia documentazione prodotta. Nel corso del procedimento si è dovuto, tra l’altro, prendere atto della volontà di un testimone di non rispondere ad alcune domande della Difesa.
Leggendo la Delibera di archiviazione rileviamo, nella descrizione delle motivazioni, alcuni punti che meritano alcune precisazioni.
Nella descrizione dello svolgimento del procedimento, in primo luogo, non si fa menzione del fatto che il dott. Ricci ha puntualmente ed esaurientemente replicato alle tre accuse principali, ovvero, nella estrapolazione delle affermazioni rese nel brevi interventi nel corso della trasmissione, ha fornito un chiarimento sul dott. Nicolosi, (“quello è stato detto su Nicolosi è del tutto arbitrario”), ha precisato una opinione scientificamente documentabile (“la funzione di padre e madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita”) ed ha offerto un commento personale con riguardo ad un tema di attualità (“nell’ideologia gender (…) l’omosessualità viene equiparata a una sessualità naturale, all’eterosessualità”). Sul primo aspetto è stata documentata, mediante comunicazione proveniente dal competente organo istituzionale statunitense, la bontà di quanto precisato dal dott. Ricci sul prof. Nicolosi: di tale importante elemento, non vi è traccia nel provvedimento.
Nel provvedimento, in contraddizione con l’iniziale impianto accusatorio, si legge: “oggetto del procedimento disciplinare a carico del dott. Ricci non sono eventuali sue posizioni riguardo a temi importanti, bensì il modo in cui egli ha ritenuto, in quanto psicologo, di poter trattare ed esporre tali temi all’utenza”. Ed ancora: “pertanto al dott. Ricci non è mai stato contestato cosa ha trattato, bensì come lo ha trattato; a prescindere dall’argomento, ciò che rileva e rileverà in sede disciplinare sarà come l’iscritto, in quanto psicologo, abbia restituito all’utenza tale argomento in termini di rigore scientifico, correttezza e puntualità”. Dunque da una parte si afferma che “non viene contestato ciò che Ricci afferma”, dall’altra che è “rilevante in sede disciplinare come Ricci ha restituito all’utenza tale argomento in termini di rigore scientifico, correttezza e puntualità”. La contraddizione pare, non solo al Collegio difensivo, evidente.
A fronte delle varie e numerose contestazioni mosse con l’avvio del Procedimento, risulta inspiegabile l’affermazione secondo cui “al dott. Ricci non è mai stato contestato cosa ha trattato, bensì come lo ha trattato”. Ciò nondimeno senza considerare che “ciò che Ricci ha trattato” è frutto di una estrapolazione di circa 3 frammentati ed interrotti minuti in cui l’incolpato è intervenuto su circa 45 minuti complessivi di trasmissione.
I tre minuti presi in esame sono stati, inoltre, nel corso della trasmissione oggetto di continue interruzioni, battute, commenti, sovrapposizioni di altre voci in un clima che rendeva impossibile un’efficace o puntuale replica rispetto agli argomenti posti.
Nel provvedimento di archiviazione si legge: “Pur permanendo irrinunciabili perplessità in ordine a orientamenti dottrinari e scenari metodologici a cui le affermazioni del dott. Ricci potrebbero voler fare riferimento e nell’impossibilità in sede disciplinare, di poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che tale diretto collegamento vi sia, ritiene questo Consiglio […] che non sono emersi elementi sufficienti per ritenere il dott. Ricci responsabile per gli illeciti contestati” e quindi “ha deciso di archiviare il procedimento disciplinare”.
Da un lato, dunque, il Consiglio chiarisce come non fosse oggetto di procedimento il “cosa”, ma solamente il “come”; dall’altro si legge che il Consiglio nutre “perplessità in ordine a orientamenti dottrinali” dell’incolpato.
Assolto, dunque, per insufficienza di prove?
Parrebbe così. Probabilmente le “irrinunciabili perplessità” dei sette Consiglieri che hanno votato contro l’archiviazione non sono state in grado di affermarsi, non hanno trovato sufficienti appigli per tradursi in una sanzione. Significativo che, nelle ultime righe si legga “il Consiglio ritiene di non poter sanzionare”. La scelta del predicato è, forse, rivelatrice: “poter” invece che il più appropriato “dover” sanzionare.
Rimane la perplessità in ordine al tempo occorso per stabilire che non si può sanzionare il Dott. Ricci per aver espresso un’opinione scientificamente documentata in alcuni frammenti di una trasmissione televisiva.
Così, pertanto, si è concluso il terzo esposto (analogamente a quanto già accaduto nel 2009 e nel 2011). Nel frattempo, nel 2017, 2018 e 2019, il Dott. Ricci ha ricevuto ulteriori tre esposti: una attenzione eccezionale, un vaglio costante del pensiero e dell’attività di un professionista che si limita a dar voce ad un filone non irrilevante del pensiero scientifico in ambito psicologico.
Non può nascondersi che per il Dott. Ricci, così come per qualsiasi altro iscritto all’Ordine, ricevere continui esposti e doverne rispondere ha il sapore di intimidazione.
L’utilizzo di questi procedimenti deontologici sembra, infatti, tradire le ragioni su cui si fondano gli Ordini professionali: più che garantire e tutelare la libertà di espressione, di ricerca e di civile confronto tra i suoi membri, parrebbe si preferisca  procedere a un controllo sulle opinioni ed ad una verifica di conformità del pensiero del professionista al mainstream.
Ricevere ripetutamente degli esposti, alcuni dei quali di scarso contenuto fattuale e giuridico e relativi a fatti risalenti nel tempo, costringe il professionista a spendere tempo ed energie per predisporre una difesa su accuse perlopiù inconsistenti; ad investire legali della tutela dei propri diritti di cittadino e di studioso; a valutare la necessità di sporgere querele per la diffamazione aggravata e la calunnia cui è di continuo sottoposto.
Non si può dimenticare che, qualora il procedimento in questione si fosse concluso con una sanzione disciplinare (l’unica in decenni onorata carriera), un grave danno sarebbe stato arrecato non solo al dott. Ricci, ma anche a tutti i pazienti che a quest’ultimo si affidano.
La durata del procedimento, oltre tre anni come detto, sembra, infatti, ledere anche i pazienti reali (tutt’altro che ipotetici), che in questo lungo periodo di tempo hanno temuto di vedere il loro psicanalista sospeso: essi sono stati forse dimenticati, in nome di una “tutela” per le ignote “vittime potenziali” di alcune frasi estrapolate da 200 frammentati secondi di una trasmissione televisiva.
Si giunge, dunque, al paradosso: nel tentativo di tutelare le fantomatiche vittime di frasi teoricamente discriminatorie, si trascurano gli interessi di un professionista, dei suoi pazienti e, nondimeno, la tutela del libero pensiero.
L’auspicio, a conclusione di questa vicenda, è che la comunità scientifica riscopra il gusto ed il valore del confronto civile e non ceda alla logica dell’aggressione personale per delegittimare l’opinione altrui.

Anche per affrontare queste tematiche, abbiamo voluto organizzare alcuni incontri che raccontino questa vicenda e cerchino di fornire un giudizio interpretativo di quanto accade nel nostro Paese: il primo incontro sarà mercoledì 29 maggio 2019 alle ore 21.00 presso l’Angelicum (in Milano, ingresso Via Renzo Bertoni 7 – Sala San Bernardino).

Milano, 21 maggio 2019
Il Collegio di Difesa (Avv. Davide Fortunato e Avv. Valeria Gerla) 

lunedì 4 marzo 2019

IL TEMPO DELLA LIBERTA' COATTA. Intervista a G. Ricci

"Vivere come automi al tempo della libertà coatta”: 
è il titolo dell'intervista che Caterina Giojelli 
ha fatto a Giancarlo Ricci 
intorno al suo libro, Il tempo della postlibertà

L'intervista è uscita su TEMPI. IT il 28.2.19 
Vai a https://www.tempi.it/vivere-come-automi-al-tempo-della-liberta-coatta/


«Le nuove libertà, proprio come al mercato, 
prima o poi si pagano». 

«La libertà di pensiero ce l’abbiamo. Adesso ci vorrebbe il pensiero». È un aforisma di Karl Kraus, scrittore e noto polemista viennese, e per Giancarlo Ricci è il più efficace emblema della condizione della libertà al tempo dei “mezzi senza fine”: che ne è della libertà di parola e di pensiero, si è chiesto lo psicanalista quando, anno 2016, si è trovato al centro di una vicenda che ha davvero svelato tutte le idiosincrasie e le ossessioni della società dei nuovi diritti e delle infinite possibilità? 
Da questo interrogativo ha preso le mosse un libro strepitoso, Il tempo della postlibertà. Destino e responsabilità in psicoanalisi (192 pagine, Sugarco edizioni), navicella capace di inoltrarsi in mare aperto, spinta dal vento costante dell’indignazione. Ricci, spiega a tempi.it, è ancora in attesa di sapere l’esito del procedimento disciplinare emesso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia nei suoi confronti tre anni fa quando, ospite della trasmissione televisiva “Dalla vostra parte”, avrebbe fatto affermazioni che secondo i colleghi «possono realizzare discriminazioni a danno di alcuni soggetti», manifestando «un comportamento contrario al decoro, alla dignità e al corretto esercizio della professione». 

Tempi vi aveva già raccontato come erano andate le cose nei cinque minuti in tutto in cui ha potuto parlare, Ricci ha affermato che «la funzione di padre e madre è essenziale e costitutiva alla funzione di crescita del figlio». Apriti cielo. Un
professionista stimato e conosciuto a Milano, dove esercita da oltre quarant’anni, membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi, esperto di Freud, giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Milano, autore di diversi volumi di psicologia e decine di studi specialistici, ha parlato della necessità di mamma e papà, senza usare l’onnicomprensivo e neutrale “genitore”: «In materia di parole l’ideologia va per le spicce. Secondo l’accusa quanto ho detto risulta discriminatorio non solo nei confronti delle coppie omosessuali o delle famiglie arcobaleno ma anche nei confronti di quelle famiglie che si ritrovano senza un padre o senza una madre, sebbene né i primi né i secondi fossero oggetto della mia affermazione. La malafede è evidente, la logica di questo paralogismo è tale che se qualcuno affermasse che “l’uomo per vivere deve mangiare” potrebbe essere accusato di discriminare coloro che non hanno nulla da mangiare – racconta Ricci. L’Ordine degli Psicologi non è un ordine di pensiero: da quando il suo compito è verificare la capacità espressiva e la pertinenza teorica e scientifica dei suoi associati, nonché di esprimere un giudizio in merito? Non solo sono stato trattato come se fossi stato un venditore di pentole capitato per caso in una trasmissione televisiva, ma in questi tre anni mi sono arrivati all’Ordine altri due esposti (con questi sono cinque dal 2009), sottoscritti da simpatizzanti Lgbt ossessionati dalla minuziosa verifica se il sottoscritto pratichi o meno la cosiddetta terapia riparativa (Ricci non la pratica in quanto i riferimenti teorici e clinici sono differenti, ndr). L’ultima udienza sul mio “caso” si è tenuta il 17 gennaio, al termine della quale si sono ritirati per deliberare. Lei li ha più visti?».

Erano i mesi precedenti l’approvazione della legge Cirinnà sulle unioni civili: nel suo libro spiega bene lo stato dell’arte della libertà in questo contesto storico, il suo funzionamento nei media, negli ambiti in cui agisce il pensiero unico, che parla una neolingua e agisce in base a nuove norme e princìpi. 

Lei dice che siamo entrati nell’era della postlibertà. Dove si muore di troppa libertà. Cosa è cambiato?

L’uomo del Novecento si accorgeva di perdere la libertà e combatteva una guerra totale contro questa perdita. Oggi invece il regime neoliberista assicura che siamo talmente liberi da poter fare a meno della libertà, promette strani surrogati sempre nuovi. Questa offerta di nuove libertà all inclusive, infatti, conforta il cittadino che crede di essere libero, crede che la libertà sia disponibile come una merce, crede di poter fare a meno di ogni responsabilità. E così facendo, anche il proprio destino viene delegato al nuovo concetto di governance, entità impersonale e irraggiungibile. Così è sempre più difficile sottrarsi a questo carnevale permanente di libertà pluralizzate, assegnate quasi a titolo d’obbligo: una libertà coatta, progettata come diritto al godimento di un desiderio individuale che nello storytelling neoliberista prometterebbe cinicamente la felicità. Questo ha delle conseguenze anche a livello psichico: pensare alla libertà nei termini di un diritto da esigere rischia di ridurre gli altri, la collettività, il bene comune, ad elementi che ostacolano l’individualismo e minacciano la propria felicità narcisistica.

Perché parla di carnevale delle libertà? 

Perché se svanisce l’istanza di responsabilità e di destino come contenuti imprescindibili della libertà, tutto diventa una finzione: pubblico e privato si rovesciano e si confondono, reale e virtuale si compattano. In questo 
senso l’omosessualismo, i temi della “rivoluzione gender”, del diritto al riconoscimento del matrimonio omosessuale, della richiesta dell’adozione e della possibilità di poter avere un figlio tramite l’utero in affitto, rappresentano oggi gli emblemi di nuove libertà. Si basano tuttavia su presupposti e logiche un po’ perverse: la logica delle cose e della “natura” vengono rovesciate sul presupposto che un desiderio individualistico debba essere riconosciuto da un dispositivo giuridico che lo renda possibile. Lungo questa via la vita psichica di un soggetto si espande su un piano sociale che gli consente di immaginare di essere libero, di scegliere i propri diritti, di utilizzare quelle “nuove libertà” immesse sul mercato dalle biotecnologie che promettono di superare i limiti della natura. Ma le nuove libertà, proprio come al mercato, prima o poi si pagano. Ed è il destino di una civiltà a pagarle, in nome di una sorta di anonimato della responsabilità. Che prezzo ha la libertà che ci viene offerta abbondantemente? Ma soprattutto, quale libertà riceviamo? 

Lei scrive infatti che c’è poco pensiero in questa libertà che assomiglia a una botte in cui rifugiarsi e in cui vivere. Parla di libertà come comfort e allo stesso tempo come imperativo: ciascuno si prenda la propria. È una libertà condizionata?

Sì, ma le anime belle fanno finta di non accorgersene. I nostri tempi non procedono più nel concedere o togliere la libertà, ma, in modo sempre più sofisticato, nel concederla ancor prima che venga domandata. Spossessandola pertanto di qualsiasi desiderio. Il modo migliore per neutralizzare ogni libertà è infatti quello di farla implodere al suo interno: permettere tutte le libertà per livellare ogni possibile libertà, neutralizzarla. Annichilirla. Sequestrare il soggetto pretendendo di sapere  quale libertà richiede. È un principio decisamente maternalistico. Sarà il principio dell’egualitarismo, di un nuovo egualitarismo, a distribuire le stesse libertà a ciascuno. Tutti saranno uguali perché tutti godono delle stesse “nuove” libertà. 

Facciamo degli esempi...

Le differenze di pensiero dovrebbero produrre altro pensiero, invece, secondo il pensiero unico, questo è pericoloso: meglio gli stereotipi, il conformismo. Per il politicamente
corretto ogni opinione dovrebbe essere esente, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale, di disabilità fisiche o psichiche… la  lista potrebbe continuare all’infinito. Paradosso vuole che questa logica enfatizzi il pregiudizio per relativizzare, ostacolare e inibire, il giudizio stesso. È come se fosse neutralizzata la responsabilità, come se la burocrazia entrasse nel linguaggio. E qui torniamo al carnevale: riprendendo un recente libro di Eugenio Capozzi, Politicamente corretto, possiamo dire che l’omologazione è come un bulldozer che maciulla tutto ciò che incontra sul suo cammino: lingue, culture, consuetudini millenarie. Il nostro modo di pensare deve adeguarsi al principio della “pari opportunità”, come se i pro e i contro individuati dalla nostra ragione potessero magicamente equipararsi. Pertanto ogni verità, seppur soggettiva, verrebbe annullata da una contro-verità.  Ma se una verità è uguale a un’altra, tutto si azzera, non possiamo più giudicare. Ecco il carnevale delle libertà: rinunciate al giudizio o all’istanza di verità, tanto è inutile, vincerà la finzione e il gioco trasgressivo di una virtualità che pretende di diventare legittima. Penso che gli effetti sociali saranno pesanti.

Contro questa strana ingegneria sociale lei scrive che sarebbe importante ripristinare un concetto di discriminazione che sia degno di questa parola.

Oggi per meglio gestire le libertà altrui si è aperta la caccia alle discriminazioni. L’ipermodernità vuole paludarsi di egualitarismo. Nel libro sostengo che discriminare significa innanzi tutto discernere, termine che si situa agli antipodi del pregiudizio e che riguarda semmai il giudizio, sia esso intellettuale, etico o morale, che è altra cosa dalla condanna o dalla sentenza. Di sicuro se rinunciamo al giudizio la ragione collassa. Se per esempio un soggetto non riesce a sbrogliare la matassa della propria vita psichica, matassa fatta di eventi, emozioni, pensieri, fantasie, essa si ingarbuglierà sempre più. La psicoanalisi suggerisce che in gran parte possiamo ritessere il destino della nostra vita e assumerci le proprie responsabilità, altrimenti il rischio è di credere a un destino già scritto. Tale fatalismo, questa volta davvero,  funzionerebbe come una discriminazione assoluta.

Ma avremo pure la libertà di pensarla in modo diverso e di prendere le distanze da questo modo di progettare la nostra libertà?

Le pattumiere del consumismo sono colme di libertà usa e getta, ma l’inconscio, in definitiva la nostra memoria, non
perdona, restituisce quello che abbiamo buttato o lasciato in sospeso. In alcune pagine del libro evidenzio la doppia etimologia del termine libertà. Semplificando: da una parte la radice latina liber, dall’altra il germanico frei, da cui free in inglese. Le differenze sono significative: liber evoca la filiazione, la collettività, il bene comune; frei si muove invece nella direzione di un soggettivismo che promuoverà, nella modernità, il concetto di autodeterminazione. Che cos’è l’autodeterminazione? Il mito dell’uomo che si fa da sé, che si ritiene esente da ogni debito simbolico e quindi da ogni responsabilità verso gli altri. È un abbaglio. Nell’ipermodernità l’autodeterminazione indica il trionfo dell’uomo che si crede libero, portatore di una libertà ritenuta “eroica” nella supposizione di averla fondata da sé. Che vorrebbe, in definitiva sconfiggere le leggi della natura utilizzando a modo suo gli “effetti speciali” della tecnologia.

Qual è la posta in gioco di questo lavoro?

Far sì che la libertà sia “bene detta”, elaborata e formulata cioè attraverso quelle parole autentiche con cui il paziente progetta il proprio bene. Il destino di ciascuno non è già scritto ma può essere ritessuto da quello che chiamo un “lavoro di libertà”: libertà pensata e progettata in base a nuovi orizzonti. Ogni storia è il risultato denso e complesso di infinite storie. Il lavoro psicoanalitico punta a ritrovare il desiderio di progettare una libertà altra che ha il sapore di una conquista perenne. Invece, in questo tempo di libertà “male dette”, di rimasugli di ideologie che presumono di gestire un’ortopedia del pensiero mediante il politicamente corretto, viene da parafrasare l’aforisma di Kraus: «La libertà di pensiero c’è l’abbiamo, ora ci vorrebbe urgentemente un pensiero sulla libertà».

martedì 26 febbraio 2019

LUCEAFARUL di Tiberio Crivellaro


Poesia e psicoanalisi, binomio essenziale e fecondo, 
fuoco incandescente in cui si tempra la parola e la soggettività. 
. 
Tiberio Crivellaro ha attraversato questo fuoco e la sua poesia, scritta sulla carne, ne testimonia l’avventura.

Pubblichiamo l’Introduzione di Giancarlo Ricci 
al libro di poesie Luceafarul  di Tiberio Crivellaro 
(New Press Edizioni, nella collana "Il Cappelaio Matto" 
curata di Vincenzo Guarracino). 


Introduzione

   
Un viaggio, come ogni vero viaggio, si imbatte nello spaesamento e nella deriva. Infaticabili  “itinerari impossibili” si alternano e si rincorrono.  Nella poesia di Tiberio Crivellaro i paesi e le città, la Romania e Bucarest in particolare,
diventano lo sfondo per altre avventure e per altri viaggi imprevisti e imprevedibili. I vicoli, la polvere, le luci, i respiri.  E anche le donne; una in particolare, silenziosa, che accompagna con la sua discreta presenza la trama sottile ed evanescente degli accadimenti. Ma la passione di fondo rimane quella per la poesia, per il corpo poetico, per la materia delle parole e per l’opacità delle immagini soprattutto quando svaniscono nell’ombra o nell’oblio. Eppure sono immagini che continuano ad apparire luminescenti e a trasmettere impercettibili sensazioni. 
La poesia è forse, anche, arte del tratteggio, scienza dell’accenno fugace ed epifanico, racconto di quanto a stento riusciamo ancora a sopportare. Viaggio nella nostra anima, viaggio nella nostra cittadella diroccata.  Ma poi c’è anche la città vera, Bucarest, occasione di incontri imprevisti, talmente imprevisti da diventare vertigine, come tratteggiano questi versi sfolgoranti: 

   Bucarest, metropoli pusterla,
   cortili  cani  locuste  passi moribondi
   un vecchio balocco cavallino ciorba,
   occhi penombri grevi:
   una vertigine.
   Vecchie  vendono rape e povere cose.
   Una guerra unta annienta la città.
   Tregua è  moscaceca,  moscaromena
   sottomessa nei postriboli da Mac Donald’s.
   Lotta nell’aria, quella dei bimbi
   senza stagione, sporchi piccoli Rom.

Questo viaggio, quest’altra viandanza, è composta da “tre sequenze di passione” e tesse una triplice partitura: Origine di Bucarest, Origine di Theorein, Origine di Fermenti. 
Tre tempi, tre logiche, tre scene con “andate e ritorni” come dichiara Tiberio con parole semplici ed efficaci: “Si tratta di un viaggio (con andate e ritorni - tra il 2000 e 2002) nella vicina Romania.  L'incontro con una donna evidenzia ignoto e stranianza di innamoramento, alcol, delirio si scrivono nella vicenda tra temerarietà e spaesamento. Non c'è familiare nel luogo o nella donna. Qualcosa di onirico svincola dal reale. Prendo a
prestito il titolo "Luceafarul" del celebre Eminescu. Qui egli diventa quasi l'ombra che mi accompagna al viaggio di "frontiera" dove tutto, persone, luoghi e cose sono straniere. 
Momenti di euforia, altri di cupezza. Scrissi quasi tutti i testi di notte, a Bucarest, ospite (quando ci andavo) di un amico italiano, Umberto, in un grande appartamento con molti libri di autori rumeni. Là, per la prima volta conobbi e cominciai a leggere Emile Cioran che ancora oggi mi accompagna silenzioso… Moltissimi di questi libri erano in lingua rumena, pochissimi con traduzione a fronte. Credo appartenessero a un professore universitario rumeno che a periodi affittava l'appartamento. Decisamente, poi, finita la storia, presi a limare testi e alcuni a scartarli. Ho cercato così di rimediare una piccola memoria. Memoria oggi quasi perduta”.
Dunque ci si tuffa nel viaggio come ci si tuffa nella memoria. In un abbandono che porta altrove, in un luogo da cui ci vediamo, noi stessi, collocati altrove. Siamo stati visti laggiù, inerpicati su improbabili crinali o come un puntino perso in una sterminata pianura di luce. O siamo visti ingabbiati tra quattro mura nella notte sprofondata della città straniera. O ancora, accucciati e ammutoliti su un divano polveroso alle luci dell’alba. 
Così, nella poesia di Crivellaro, le immagini scorrono e
corrono a perdifiato, vanno e vengono, si rincorrano, dialogano, pensano, sentenziano. Ma non si ingannano. Rimangono lì, resistono, abbarbicate alla loro arbitraria consonanza. Riverberano evanescenze che raccontano di corpi, di respiri e di agonie. Di improbabili congetture. Di gesti d’amore ultimi, definitivi, come fossero l’ultimo battito d’ali. Come pulsazione perentoria che ferma il tempo, lo cristallizza, lo rende cosa. E al contempo in modo divorante chiede e invoca, come una preghiera incessante, l’esaudirsi di ciò che non potrà mai esaudirsi.

   Sulla rena
   stanco
   mi assopisco
   cullato
   dalle tue pupille
   smeraldine.

Giancarlo Ricci  (marzo 2016)